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Leucemia linfatica cronica, scovata la proteina che impedisce alle linfoghiandole di «sgonfiarsi»

martedì 16 gennaio 2018

Uno studio internazionale cui hanno contribuito i ricercatori del CRO ha scoperto che uno dei farmaci biologici per il trattamento della leucemia linfatica cronica, può essere meno efficace se le cellule tumorali portano sulla loro superficie una particolare proteina (CD49d)

AVIANO (PN), 16 gennaio 2018 - Uno studio internazionale cui hanno contribuito i ricercatori del CRO ha scoperto che uno dei farmaci biologici per il trattamento della leucemia linfatica cronica, può essere meno efficace se le cellule tumorali portano sulla loro superficie una particolare proteina (CD49d).

La leucemia linfatica cronica è considerata la più frequente forma leucemica del mondo occidentale, con un numero di nuovi casi all’anno nel nostro Paese di circa 5-7 casi ogni 100 mila abitanti. In tale malattia le cellule leucemiche si accumulano nei linfonodi, nella milza e nel midollo osseo.

Lo studio, pubblicato dalla prestigiosa rivista internazionale The Journal of Experimental Medicine, dimostra chiaramente come uno degli effetti più eclatanti del trattamento della leucemia linfatica cronica con ibrutinib, lo “sgonfiamento” delle linfoghiandole sedi di malattia per distacco ed uccisione delle cellule leucemiche, non accade od accade in maniera minore quando le cellule leucemiche stesse hanno la “famigerata” proteina sulla loro superficie.

Le possibilità terapeutiche di questa forma leucemica sono state riposte ultimamente nei cosiddetti farmaci biologici, tra cui ibrutinib. L’effetto è dovuto alla loro capacità di “staccare” le cellule leucemiche dai tessuti delocalizzandole transitoriamente nel sangue dove esse muoiono e vengono eliminate.

Il gruppo di ricercatori coordinato da Antonella Zucchetto e Valter Gattei del CRO e Tanja Nicole Hartmann dell’Università di Salisburgo, hanno dimostrato come più elevati livelli di CD49d sulla superficie delle cellule leucemiche erano associati con una minore risposta clinica ad ibrutinib sia in termini di riduzione di masse leucemiche, che di incremento di linfociti nel sangue; conseguentemente, tali pazienti andavano incontro più rapidamente a progressione di malattia.

«I risultati dello studio – sottolinea Zucchetto – suggeriscono che le cellule leucemiche che risiedono nei tessuti linfatici sede di malattia siano in grado di usare CD49d per rimanere adese ai tessuti anche in presenza di ibrutinib. Grazie a questa capacità, le cellule leucemiche che portano CD49d sulla loro superficie rimangono nei tessuti vive e vitali e ciò influenza negativamente il risultato terapeutico».

Oltre ad ibrutinib, recentemente sono stati individuati altri farmaci biologici che possono essere usati in combinazione con ibrutinib potenziandone l’effetto. I ricercatori hanno dimostrato come l’uso simultaneo di ibrutinib ed un altro farmaco ad attività simile, detto idelalisib, era in grado di bloccare meglio la proteina CD49d sulla superficie delle cellule leucemiche.

«Questa osservazione suggerisce come la valutazione dei livelli di espressione di CD49d in pazienti che devono iniziare la terapia con ibrutinib - aggiunge Valter Gattei - possa identificare quei casi per i quali una terapia di combinazione, finalizzata al blocco completo della molecola CD49d, possa essere di maggior beneficio terapeutico».

Lo studio è stato condotto grazie a finanziamenti istituzionali, del Ministero della Salute, AIRC ed AIL.

 

Ufficio Stampa | IRCCS CRO di Aviano