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Nuove evidenze nella leucemia linfatica cronica

giovedì 22 luglio 2021

Una ricerca internazionale coordinata dal CRO ridefinisce il ruolo del gene P53 nel predire l’aggressività della malattia e la risposta alle cure

Team Onco-Ematologia

La leucemia linfatica cronica ha un andamento più aggressivo e risponde in modo minore alle terapie convenzionali quando una frazione anche minoritaria delle sue cellule porta le mutazioni di un gene chiamato P53. È quanto è emerso da uno studio internazionale che ha unito numerosi ricercatori in Italia e Regno Unito, coordinato da Riccardo Bomben e Valter Gattei del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano e pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica internazionale Clinical Cancer Research.

La leucemia linfatica cronica è considerata la più frequente forma leucemica del mondo occidentale, con un numero di nuovi casi all’anno nel nostro Paese di circa 5-7 casi ogni 100.000 abitanti. Che la mutazione del gene P53 fosse associata a una forma di leucemia più grave è un’evidenza condivisa da tempo. La ricerca di tale alterazione molecolare rappresenta infatti da qualche anno un’analisi irrinunciabile del cosiddetto “inquadramento prognostico” della malattia, cioè finalizzato a definirne il livello di gravità. Per definire però la leucemia come “P53 mutata” è necessario che la mutazione sia presente in tutta o in una fetta consistente della popolazione cellulare tumorale. Lo studio condotto ad Aviano ha dimostrato invece un andamento clinico simile, e similmente negativo, in leucemie in cui la mutazione di P53 era presente nella maggioranza delle cellule tumorali o in leucemie in cui la mutazione era presente in una frazione assolutamente minoritaria, meno dell’1%, delle cellule tumorali.

«Le nuove tecniche di sequenziamento genico, come quelle dette di “next-generation” permettono di trovare la mutazione di un gene anche se presente in pochissime cellule», sottolinea Riccardo Bomben, ricercatore responsabile dello studio. «Ovviamente, per essere sicuri di quello che vediamo, è necessario mettere a punto una procedura di analisi estremamente sofisticata, ed è quello che abbiamo fatto in questo caso grazie anche a una analisi bio-informatica originale messa a punto dal collega Filippo Vit e resa disponibile a tutta la comunità scientifica».

«Da un punto di vista pratico e clinico, questo studio suggerisce di cambiare i parametri di valutazione della mutazione di P53 introducendo una procedura, come quella proposta, in grado di identificare la mutazione anche se presente in poche cellule», aggiunge Valter Gattei, direttore dell’Onco-Ematologia Clinico-Sperimentale del CRO di Aviano. «È chiaro che non tutti i laboratori onco-ematologici sono attrezzati e qui si solleva il tema, di sanità pubblica, relativo all’accentramento delle analisi più complesse, che sarebbe bene fossero eseguite in laboratori altamente specialistici, come quello di Aviano. È da ricordare che i pazienti affetti da una leucemia P53 mutata vanno indirizzati verso terapie specifiche, non chemioterapiche, e quindi la valutazione molecolare assume un ruolo di indirizzo clinico importante».

Lo studio pubblicato su Clinical Cancer Research ha incluso più di 1.700 pazienti affetti da leucemia linfatica cronica seguiti dai maggiori centri ematologici italiani, che hanno fatto riferimento all’Onco-Ematologia Clinico-Sperimentale del CRO di Aviano per l’inquadramento laboratoristico dei loro pazienti dal 2003 al 2019. «Fa molto piacere notare come il portato di una attività clinico-laboratoristica abbia rappresentato la base per uno studio sperimentale, rappresentando un esempio concreto del cosiddetto approccio clinico-sperimentale, tipico degli Istituti come quello di Aviano».

Silvia Franceschi, direttrice scientifica f.f. del CRO di Aviano, sottolinea come tali studi, per avere successo, debbano essere portati avanti per molti anni e richiedano uno sforzo congiunto di finanziamenti, in questo caso sia pubblici, istituzionali e del Ministero della Salute, che privati (AIRC ed AIL). «Il CRO ha investito molto su questa patologia sia nella ricerca che nella clinica, dedicando ai pazienti un ambulatorio specifico, sviluppando in tal modo un programma capace di trasferire in modo efficace ed efficiente in clinica quello che rappresenta il portato delle osservazioni di ricerca».